Primo Levi. Trent'anni fa la morte. La sua testimonianza contro l'indifferenza alla ricerca del senso

di Rosanna Pilolli 11/04/2017 CULTURA E SOCIETÀ
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Voi che vivete/ ma fuori al freddo vi aspetteremo noi/l’esercito dei morti invano/Noi della Marna e di Montecassino/ di Treblinka, di Dresda e di Hiroshima/ E saranno con noi/ i lebbrosi e i tracomatosi/ Gli scomparsi di Buenos Aires/I morti di Cambogia e i morituri d’Etiopia”.

Nelle parole di questa drammatica lirica emerge ancora una volta il tema di fondo degli scritti e delle liriche di Primo Levi, lo scrittore, partigiano, letterato, saggista, chimico, autore poliedrico vissuto nel cuore più tragico del Novecento.

Un autore, un intellettuale che descrive con un linguaggio asciutto e incisivo, drammaticamente pacato l’inutilità delle stragi nel mondo e l’indifferenza colpevole degli uomini, la crudeltà sottile e mai placata negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, nei quali l’umanità sembrava avere rimosso l’orrore dell’Olocausto in una corsa “innocente” verso nuovi fronti  e nuovo sangue.

Trent’anni fa, in un giorno di pioggia, l’11 aprile 1987 Primo Levi poneva fine alla sua vita ai piedi della tromba delle scale della sua abitazione torinese, sigillando per sempre un passato tragico,  sempre vivo nella sua coscienza e, forse, mai non risolto.

Era ebreo Primo Levi e pertanto negli anni del fascismo e della sua gioventù aveva assistito alle sopraffazioni e ai limiti imposti dalle delle leggi razziali volute nel 1938 da Mussolini e firmate dal Re Savoia. Certamente un atto di sudditanza all’alleato nazista che aveva già seminato in Germania la pianta avvelenata di un antisemitismo violento e prevaricatore. Molti in Italia fino all’emanazione di quelle leggi erano rimasti sorpresi e increduli. “Nella mia famiglia si accettava con qualche insofferenza il fascismo”- scriveva Primo Levi - Mio padre si era iscritto al partito di malavoglia ma si era pur messo la camicia nera. E io stesso ero stato balilla e poi avanguardista. Potrei dire che le leggi razziali restituirono a me e a molti altri il libero arbitrio”.

 Ritrovata la libertà di coscienza fece la  scelta consapevole  che lo guidò da Torino dove era nato, sulle montagne della Valle d’Aosta tra le file dei partigiani. Venne arrestato durante dai nazifascisti e avviato al campo di sterminio di Auschwitz come ebreo; un’etichetta in quel tempo giudicata preminente su quella di partigiano. Nel febbraio del 1944 insieme a 650 ebrei italiani era stato stipato in un treno merci senza viveri e senza acqua. Di quei 650 ne tornarono soltanto 20. Nel campo come tutti divenne un numero: 174.117. Non più un essere umano ma una particella tra i “Pezzi” avviati alla “soluzione finale” insieme ai comunisti, agli oppositori dei regimi nazista e fascista, ai polacchi, gli zingari, ai criminali, agli omosessuali. Dall’esperienza del campo di sterminio protratta fino alla liberazione dall’Armata Rossa, dalla marcia della morte per la quasi totalità dei prigionieri, Primo Levi aveva tratto il suo primo e più famoso romanzo: Se questo è un uomo, un classico della letteratura mondiale dopo le prime difficoltà di pubblicazione (l’editrice Einaudi lo pubblicò soltanto in un secondo momento). Nel racconto dei giorni dannati del campo Levi osserva il punto di non ritorno dell’umanità. Guarda con gli occhi ancora disperatamente umani il soldato che uccide senza rabbia o che frusta i prigionieri senza collera, quasi dolcemente e nello stesso tempo, sul fronte dei disperati chi  non permette a se stesso di perdere la dignità. E quindi l’amicizia, la solidarietà e perfino l’allegria. L’amicizia di un amico che “vive il lager illeso e incorrotto contro cui si spuntano le armi della notte”. E poi i piccoli compromessi, le furberie, i commerci.  E’ l’indifferenza, l’inutile vagare del senso della vita umana, il tema portante dei suoi scritti successivi. Nella mole delle sue opere, il saggio I sommersi e i salvati esplora pacatamente ancora una volta l’animo umano analizzando come uno scienziato, in modo asettico, le ragioni e il fondo della natura umana.

Tornerà per l’ultima volta a scrivere sull’Olocausto nell’opera “Se non ora quando?  Nella quale racconterà le avventure picaresche di un gruppo di giovani ebrei contro i nazisti.

Nella gamma dei suoi interessi letterari compare “il filone industriale”, il mondo del lavoro come ne La chiave a stella con il quale vinse il premio Strega nel 1979. Un libro ottimista il cui interprete, un operaio, rappresenta il simbolo dell’amore per il proprio lavoro: forse “la migliore approssimazione della felicità sulla terra” .

Questa ricorrenza ci invita a riflettere sulle questioni irrisolte della nostra esistenza: l’inutilità delle guerre, la violenza e la sopraffazione dell’uomo sull’uomo, l’incapacità di provare empatia e senso di dovere per il mondo che abitiamo, la necessità di un lavoro che appaghi i bisogni materiali e quelli spirituali.

Levi scelse di non lasciarsi sopraffare dall'insensatezza, intraprese un lungo cammino dopo il gennaio del 1945 con coraggio e consapevolezza alla ricerca del valore delle cose umane. Questo almeno fino alla mattina dell'11 aprile 1987.   


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